Le fotografie sono frammenti di un viaggio intimo e personale. Rappresentano la mia visione di fronte alle ambiguità e i contrasti del continente latinoamericano. Questa visione è fortemente influenzata dalla mia esperienza professionale: sono stato Delegato al Comitato Internazionale della Croce Rossa per più di 20 anni e ho lavorato in molte zone di guerra. Ho affrontato quotidianamente la violenza, la crudeltà umana e le sue conseguenze. Le foto sono state scattate durante il mio tempo libero o durante le mie vacanze, ossia lontano dalle aree di crisi in cui ho lavorato. Tuttavia, il libro è intriso della dualità del Bene-Male, che si acutizza sempre durante la guerra e che ho sperimentato in prima persona. Per me, il processo fotografico è diventato una “riscoperta” del mondo attraverso una lente critica: quella che consente di vedere la coesistenza del bene e del male ovunque e in ogni essere umano (spesso metaforicamente). Ma senza pessimismo o giudizi morali. Semplicemente come un dato di fatto. Ho visto la violenza dove sembrava esserci pace e ho trovato poesia dove avrebbe dovuto esserci solo dolore.
Senza alcun obiettivo giornalistico o documentario, mi sono limitato a incontrare persone, ad osservare animali e l’ambiente, cercando sempre un contatto empatico con i soggetti delle mie foto. Ho fotografato ciò che ha attirato la mia attenzione. Nessuna immagine è stata messa in scena, si tratta unicamente di istantanee, anche se a volte sono state il risultato di lunghe attese e conversazioni ancora più lunghe.
Ho iniziato a scattare foto nel 2005, inizialmente senza un obiettivo definito, e poi in modo più selettivo. Dopo 15 anni ho sentito la necessità di dare un significato più profondo al mio lavoro fotografico: la pubblicazione del libro “Pathos” è stato per me un processo editoriale ed emotivo molto importante. È stato come guardare indietro e prendere coscienza di ciò che avevo vissuto per elaborare le mie esperienze di prossimità con l’oscurità, ma anche con il lato luminoso dell’essere umano.