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Uno che di nome si chiama Lenin deve per forza avere un percorso segnato. Troppo forte è l’imprinting, il marchio di fabbrica che richiama lotte contadine, coscienza popolare, il grande sogno comunista che si è spezzato con la dittatura sovietica ma che da noi, soprattutto nella nostra pianura emiliana, è rimasto un’utopia irrealizzata. E allora chi si porta lievemente sulle spalle ciò che più che un onere è un onore ci sta che consacri la sua esistenza alla vita spartana dei campi tinteggiata con i colori della campagna, profumata dall’odore del fieno e delle stalle, incorniciata dai tramonti quando l’erba cambia colore. Ed è il lavoro nei campi, la pace della natura che avvicina gli uomini alla poesia. Poesia delle cose e dell’anima, linguaggio che si nutre delle vibrazioni della terra umida, fertile, a volte arida. […] L’occhio fotografico di Paolo Simonazzi coglie alla perfezione la natura delle cose e le fa rivivere nella loro essenza fatta di colori pastello, disordine creativo, frammenti di vita vissuta. […] Lo specchio opaco che riflette la vecchia macchina da scrivere, il lampadario di ottone che pende dal soffitto di travi consunte, la vecchia Jaguar scassata, quasi un ossimoro nel contesto proletario che la accoglie, la stalla con le porte sghembe aperte verso l’esterno dove gli animali si nutrono di luce e libertà in barba alle buie fattorie meccanizzate, il bizzarro orologio con l’effige del “Che” sul pizzo ricamato a mano della credenza, il pendolo sulla parete e la vecchia foto di una squadra di calcio in bianco e nero: questo è l’universo che rivive grazie all’obiettivo sensibile e partecipe di Simonazzi, un mondo di oggetti che sembrano vigilare con la loro silenziosa testimonianza il placido succedersi delle stagioni, quando dopo l’inverno, come canta Zucchero Fornaciari, un altro figlio di queste terre, fioriscono i nevai. Un mondo piccolo ma dal cuore grande.