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Le immagini di Giorgio Dellacasa, figlie della seconda generazione di fotografi occidentali approdata sull’isola tra la fine del secolo scorso e i giorni nostri, fra cui Martin Parr e soprattutto Alex Webb, sembrerebbero inscriversi a pieno titolo nella street photography. Sembrerebbero: il condizionale è d’obbligo ed è dovuto a quell’istinto da viaggiatore autentico che muove l’essere umano alla comprensione e alla scoperta, rifuggendo invece ogni forma di predazione, inclusa la predazione visiva di cui sovente è pervasa la fotografia di strada.
I brevi testi autografi che corredano il libro lo trasformano idealmente in una sorta di taccuino illustrato e ci consentono di entrare in maniera non invasiva negli ambienti nevralgici e periferici della capitale.
A partire dal titolo, in cui compare il verbo ricambiare e dall’uso consapevole degli strumenti offerti dalla grammatica fotografica, rimandano a un colloquio amicale.
Le luci morbide o filtrate addolciscono i toni, aprendosi all’intimità; le ampie e taglienti zone d’ombra segnano forse un silenzio impenetrabile, stabilendo un limite alla nostra saccenza; la vicinanza o la distanza con i soggetti, nonché i loro gesti, misurano lo spazio d’interlocuzione, ammettendo diversi gradi di confidenza. Ancora, poiché presenti in varie immagini: le quinte o le «inquadrature naturali», come le definiva Luigi Ghirri, oltre a dirigere lo sguardo, di nuovo funzionano da elementi discorsivi, introducendo brevi ma acuti incisi al dialogo.
In sostanza, Giorgio Dellacasa non parla di La Habana, parla con La Habana.
La fotografia, se riuscita, è maggiormente propensa a sollevare domande anziché fornire risposte e queste fotografie si prestano appunto a essere interrogate e a interrogarci. Pagina dopo pagina, esse ci chiedono se nello sguardo che La Habana sa ricambiare, noi siamo in grado non solo di riconoscere gli altri, ma di rivedere noi stessi negli altri, ciò che siamo diventati o che saremmo potuti essere.