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Il 10 aprile 1965, a Taranto, nel sud Italia, venne inaugurata la più grande acciaieria d’Europa. All’epoca, il Paese era nel pieno del boom economico e nelle regioni meridionali, che avevano economie più tradizionali, c’era finalmente entusiasmo e aria di progresso. L’Italsider, che in seguito divenne Ilva, rappresentava la modernità e lo sviluppo industriale e nessuno si preoccupava dell’inquinamento. Qualcuno pensava addirittura che, assorbendo quotidianamente i veleni della fabbrica, ne sarebbero diventati gradualmente immuni. Si sbagliavano: nei suoi quasi 60 anni di esistenza, l’acciaieria ha contaminato il suolo, l’aria e le falde acquifere, ha portato malattie e morte ai lavoratori e ai residenti locali e ha costretto agricoltori e allevatori a lasciare il lavoro perché i livelli di diossone nei loro prodotti erano troppo alti.
La storia dell’ex sito Ilva è lunga e complessa, ed è oggetto di un processo che ha visto finora condannati 26 dirigenti, dirigenti e politici. Oggi la “nuova” Ilva è gestita da Acciaierie d’Italia, società per azioni in parte pubblica (38%) e in parte partecipata dal colosso ArcelorMittal (62%), e ha prodotto 3,1 milioni di tonnellate di acciaio nel 2022.
Con “Taras”, la giovane fotografa Valentina Spagnulo ha voluto raccontare le conseguenze e l’impatto dell’acciaieria sulla popolazione locale, sul territorio e sull’economia. Valentina, che ha dedicato due anni a questo progetto, è nata e cresciuta a Grottaglie, una cittadina a 12 miglia dall’ex sito dell’Ilva. Taras è il nome della città-stato greca che in seguito divenne Taranto, “e proprio come nel III secolo a.C. la città fu svenduta dai Greci ai Romani”, spiega Valentina, “così l’abbiamo svenduta a un’economia che la sta danneggiando da 60 anni.