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Uno degli aspetti più affascinanti e meno studiati della filosofia delle immagini (e non solo nell’arte) è il concetto di “offerta” dell’opera: un gioco in cui lo “spectator” è inizialmente persuaso a interrogarsi rispetto al dipinto che sta osservando, ma allo stesso tempo è anch’esso (sì, intendo lo spectator) oggetto di indagine da parte dell’opera stessa, come se quest’ultima prendesse vita e scambiasse i ruoli, offrendo così una domanda a chi la sta guardando.
Bert Stern, uno dei più importanti fotografi di moda al mondo, sosteneva che la fotografia fosse nient’altro che “lo spazio tra di noi”. Questa acuta definizione assume un significato netto e potente nelle immagini di Manuela Podda.
Nel progetto che vediamo, ogni fotografia possiede un intento ben preciso: i soggetti e i luoghi ripresi hanno una loro definita correlazione rispetto allo spazio, ed entrambi rimandano in maniera diretta all’esperienza vissuta del protagonista. Ma noi, entrando in questa storia, diventiamo improvvisamente “offerte” spontanee per gli stessi protagonisti. Ecco che con le foto di Manuela avviene un’inversione di ruoli inaspettata: non siamo noi a interrogare i volti, i corpi e gli oggetti che si diramano in questo racconto, ma, al contrario, sono le fotografie stesse a chiederci come vediamo quelle vite, quei mondi, i cui pilastri sono spesso dolori e paure, facendoci perdere completamente la bussola.
La storia di Manuela ci cerca, ci desidera, pretende delle risposte, ed è proprio in questo spazio tra noi ed essa che la vita, il tempo e la speranza si manifestano prepotenti e folgoranti, come onde tumultuose. Tra chi c’è, chi è stato e chi verrà. Una cosa è certa, secondo Čechov “la morte non vuole gli stupidi”, e l’offerta che ci fanno queste storie non ci travolge come inetti, né travolge chi la subisce, ma ci accompagna verso una risposta che può essere solo una.